lunedì 20 febbraio 2023

CHE GRAN PREMIO DI MATEMATICA APPLICATA SIA: IL BESTA VA IN CATTOLICA!

Quattro tuoi compagni hanno partecipato giovedì 16 febbraio alla fine del Gran Premio di Matematica Applicata presso l'Università Cattolica di Milano. Con molto piacere pubblichiamo il sentito augurio della Professoressa Barbara Pozzi che li ha accompagnati e guidati sino a Largo Gemelli. Complimenti Ragazzi e brava Prof.! 


 

lunedì 13 febbraio 2023

IL GIORNO DELLA MEMORIA - EDITH

In occasione della Giornata della Memoria 2023, alcuni degli allievi dei nostri laboratori di teatro hanno creato con la prof.ssa Di Tullio uno spettacolo per non dimenticare .  







ecco il link al blog del Drama Club! 

IL GIORNO DELLA MEMORIA AL BESTA - MAURIZIO CANAUZ

 Mille sono i modi per onorare la memoria ed anche per questo 27 gennaio la nostra scuola ha colto l'occasione per far rivivere l'orrore della deportazione. Con molto piacere pubblichiamo questo racconto del professor Maurizio Canauz, docente di diritto ed economia politica. Una lettura piacevolissima e profonda, come solo i racconti di famiglia sanno essere. Il testo è disponibile su questo link ed anche qui sotto, scegli tu cone sei più comodo. Buona lettura! 


La casualità del bene [racconto di Maurizio Canauz]

Per il Giorno della Memoria un ricordo con delle briciole di verità di mio nonno F.T.

For Remembrance Day a memory with crumbs of truth about my grandfather F.T.

locomotiva-625

«Un bambino su un vagone
va al macello del giovedì
non s’è ancora rassegnato
a morire proprio così
chiede ad un soldato
– salvami se puoi –
e lui con la mano
lo rimette in fila e poi risponde
– Siete in tanti sulla terra
io non c’entro credi a me
c’è chi paga in ogni guerra
e questa volta tocca a te -».
(H. Pagani, Un capretto).

Arduino Mauri se ne stava seduto dietro la grande vetrata del caffè della stazione.

Di fronte a lui una tazzina svuotata per metà e ormai decisamente fredda.

In fondo, a ben vedere, del caffè non gli importava nulla. Quella era una giornata insulsa in cui tutto sembrava avvolto da una nebbia che potevi tranquillamente tagliare con un coltello. Gli sembra di sprecare il tempo e gli resta l’amaro di una serie di momenti noiosi, non capiti, slegati tra loro.

Una giornata in cui tutto appariva opaco, compreso la sua vita. Non era certo un filosofo, non aveva la più pallida idea di cosa fosse l’esistenzialismo, ma sapeva che trovandosi senza amici, senza moglie, senza figli alla sua età non era certo un risultato encomiabile.

Perché fosse in quella situazione non gli risultava del tutto comprensibile. Certo il suo carattere, lo riconosceva, era poco espansivo e a volte poteva sembrare arrogante ma, tutto sommato, a suo parere, non era peggio di tante altre persone che aveva conosciuto. 

Eppure, era lì solo seduto al bar della stazione.

In realtà il suo giudizio su di lui era troppo bonario, quasi autoassolutorio come spesso sono i giudizi che diamo su di noi. I colleghi, infatti, lo consideravano insopportabile e asociale, aggressivo e sempre pronto alla critica anche, se non soprattutto, ingiusta. Un vero bastian contrario, sempre e comunque. A tal punto che ritenevano fosse del tutto inutile iniziare con lui un discorso fosse di politica o sul tempo. Avrebbe avuto ragione lui a prescindere senza neppure sforzarsi di cercare di sostenere le sue argomentazioni con un po’ di logica spicciola.

Comunque non divaghiamo troppo, credo di aver inquadrato a sufficienza il personaggio.

Torniamo al caffè.

Ad Arduino Mauri sembrò di vedere un collega entrarvi e pensò, per il tempo del battito di ali di una farfalla, che forse avrebbe potuto scambiare qualche parola con lui. Gli venne istintivo alzare un braccio per chiamarlo poi si frugò nell’anima e nel cervello e si accorse che non aveva nulla da dire e che non aveva voglia di ascoltare nulla.

Il movimento del bracciò, perciò, abortì in una specie di spasmo e tornò a penzolare lungo la persona. Intanto una locomotiva, una 625, era entrata in Stazione e aveva annunciato il suo arrivo con un fischio festante e acuto.

Arduino la guardò rapito come si guarda una bella ragazza. Non per nulla quelle locomotive venivano chiamate le “signorine” per le loro linee aggraziate.

Era un po’ che non ne conduceva più una, come non conduceva più treni passeggeri, né rapidi, né locali.

Da quando, in modo del tutto irrazionale, si era rifiutato di sottoscrivere la tessera del partito.

Non l’aveva fatto per una ragione politica e tantomeno ideale, ma semplicemente perché era contrario ad ogni imposizione.

treni

Non sarebbe cambiato nulla se fossero stati i “rossi” a chiederglielo o ad ordinarglielo: si sarebbe opposto anche in quel caso.

«Nessuno può dirmi cosa fare. Forse un tempo, quando portavo i calzoni corti mio padre o mia madre ma ora…sono cresciuto». Questo era più o meno il suo pensiero. Né Locke o Kant ma solo Arduino Mauri il re dei bastian contrari. Una premessa questa che non andava troppo bene sotto un regime totalitario.

Così arrivò la convocazione formale.

La convocazione presso la direzione dello Scalo Ferroviario di Milano.

Non occorre dire che anche per lui, refrattario ad ogni vincolo o formalità, la convocazione metteva scompiglio e anche un po’ di timore nella sua vita.

Non era esattamente un fulmine a ciel sereno perché un po’ se lo aspettava, ma sicuramente era uno sconvolgimento del suo ordine consuetudinario.

Molti quando ricevevano la convocazione si chiedevano: «Io?? Perché?!?».

Domanda ripetuta milioni e milioni di volte prima di lui da altre centinaia di persone senza che avesse mai avuto una risposta certa, almeno fino quando avevano varcato la porta dell’ufficio. Lui sapeva che sul lavoro era irreprensibile per cui non poteva essere che per la tessera.

Ne aveva sentito di ogni genere su quelle convocazioni e sulle loro conseguenze per cui una giustificata paura era del tutto lecita.

Avrebbe ceduto? Si sarebbe tesserato? In fondo non era poi una cosa così grave da potergli costare il lavoro. Una innocua firma e forse, non ne era sicuro, una piccola trattenuta sullo stipendio in cambio del mantenimento delle sue mansioni e probabilmente, dopo un po’ di tempo, una sacrosanta promozione. Non era colpa sua se le cose andavano così. Non lo aveva voluto, ma non era certo in grado di opporvisi. Opporsi perché poi? Non c’era sempre stato uno più forte che opprimeva, in qualche modo, uno più debole? Non sarebbe sempre stato così? Servo e padrone li aveva chiamati qualcuno di cui non ricordava il nome. La storia è fatta di servi e padroni e non era sicuramente lui che l’avrebbe modificata.

Lottare per essere licenziato e dover abbandonare quel lavoro che amava e che aveva conquistato a fatica, lui figlio di umili casellanti di un paesino del centro Italia?

Lui che era passato da addetto agli scambi, a fuochista, ad allievo macchinista fino all’agognata promozione: MACCHINISTA.

Macchinista sui carri merci che attraversavano di notte la Penisola, poi conduttore di treni locali fino al livello più alto sui treni rapidi che sfrecciavano docili coprendo distanze ritenute impensabili, domati dalla sua mano sicura.

Ora per quello che poteva considerare un semplice capriccio o un moto esagerato d’orgoglio pareva mettere in discussione tutto ciò che aveva costruito con il sudore della fronte e non solo in senso metaforico.

Il giorno della convocazione era soleggiato anche se non caldo. Si era messo la divisa meno sgualcita che aveva, quella per le cerimonie compreso il cappello con i fregi e il simbolo delle Ferrovie che portava con tanto orgoglio.

Arrivò in anticipo e fu fatto attendere in una sala d’aspetto arredata con mobili pregevoli come le poltrone in stoffa e braccioli in radica di noce o il tavolo massiccio e squadrato con gambe a forma di lira che troneggiava al centro della sala.

Rimase immobile in quella stanza come un vecchio barbagianni in attesa di essere chiamato, per almeno una ventina di minuti. L’attesa lo irritò un poco lui che aveva fatto della puntualità il suo credo. Se si dice un’ora non c’è ragione, neppure una inaspettata visita del Duce, per non rispettare l’appuntamento. Era una questione di rispetto e di educazione e lo pensava uno che sull’educazione incespicava un poco. Fu infine chiamato da una segreteria bassa con la faccia stretta, i capelli biondi e gli occhi di ghiaccio.

Esiste un detto secondo cui chi entra in conclave Papa ne esce Cardinale.

Così Mauri entrò in quell’ufficio convinto di tesserarsi per il partito e uscì tra le minacce del responsabile delle ferrovie.

Ma andiamo con ordine. Fu fatto accomodare in una stanza in fondo al corridoio. Ad aspettarlo c’erano tre uomini. Uno era il suo diretto superiore, uno, in divisa fascista, doveva essere il rappresentante dei fasci e delle corporazioni e il terzo, con una grande testa a forma di uovo, il capo dello scalo. Di lui, che pochi conoscevano di persona, si narravano le peggior cose. Arrogante, strafottente, incapace giunto in quel ruolo solo per un’imprecisata parentela con un altissimo gerarca. Cosa ci fosse di vero pochi lo sapevano con certezza e tra quei pochi non certo Mauri. 

Comunque, già dall’accoglienza era evidente che quella convocazione fosse qualcosa di infausto.

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I volti dei tre erano cupi, senza nemmeno una traccia di quella cordialità abbastanza solita tra colleghi.

Poi iniziarono a chiedergli perché non avesse preso la tessera. Mauri strinse le spalle, come a dire che era stata una dimenticanza, una sciocchezza.

Prima però di riuscire a dire che vi avrebbe al più presto rimediato, l’uomo al centro il capo scalo iniziò ad inveire contro la sua ignavia, il suo disfattismo, la sua superficialità. Gli chiese se pensasse che fosse possibile il successo del Fascismo con quell’atteggiamento lassista e privo di ottimismo.

Era solo un cinico (parola che in verità Mauri non comprese), un cattivo esempio, un menefreghista dei veri valori della Patria.

Per questo suo atteggiamento doveva essere punito in modo esemplare a meno che non si ravvedesse immediatamente. Altrimenti per lui sarebbero stati viaggi su treni lenti e puzzolenti e notti insonni a condurli su tratte dimenticate da tutti.

Quelle minacce gli ricordavano tanto la sua infanzia e il modo di fare di suo padre convinto che il metodo migliore per educarlo fossero le urla e le cinghiate.

La stessa arroganza, la stessa insensata durezza che, come allora, portavano Arduino Mauri a radicarsi nel suo rifiuto, trasformandolo da un titubante fedele in una infervorata Giovanna D’Arco pronta al sacrificio più estremo contro l’ingiustizia.

Come un tempo aveva rifiutato gli insegnamenti paterni sentendoli come una imposizione ingiustificata, altrettanto rifiutava ora l’imposizione, allo stesso modo per lui immotivata di iscriversi al partito. Tutto quello che quei tre uomini sembravano prendere seriamente, dannatamente seriamente, per lui era irritante e forse ridicolo se fosse stato in grado di trovare qualcosa di veramente ridicolo in quella situazione. Ma l’umorismo non difettava in quella stanza solo a lui. Il fatto che non avesse sottoscritto la tessera del partito era inaccettabile, ma ancora di più era inaccettabile che non portasse a sua difesa neppure una ragione che, per quanto non condivisibile, era comunque il segno di una riflessione la cui totale mancanza pareva aver ridotto il tutto ad una semplice burla. Una burla che però non faceva ridacchiare, anzi…  

Il rifiuto, la ribellione comportano spesso delle conseguenze spiacevoli.

Gli effetti gettano il refrattario, lo precipitano, trapiantandolo da uno stato in un altro con una istantaneità stupefacente.

Mauri si ritrovò così disarcionato dalla sua locomotiva, sulla quale ormai sedeva da qualche anno e che trainava treni rapidi con passeggeri ricchi e opulenti, per ritrovarsi a condurre improbabili convogli merci che trasportavano legnami, manufatti di poco pregio e altre simili chincaglierie.

Il responsabile delle ferrovie, dalla acuta voce fastidiosa e dalla testa a forma di uovo, che lo aveva minacciato e poi punito lo avrebbe penalizzato ancor di più ma il rappresentante dei fasci e delle corporazioni, che pure prendeva molto seriamente il suo ruolo, lo aveva, in un certo senso paradossalmente, difeso ricordando la sua abnegazione al servizio e la sua infallibile puntualità nel portare i treni a destinazione. Aspetti questi che non potevano non essere considerati come attenuanti, pur dovendosi comunque infliggere una giusta punizione per la sua testardaggine.

Mauri così, dopo la punizione aveva dovuto abituarsi ad attendere la sera per salire sulla sua locomotiva perché, quasi sempre, i treni merci viaggiavano nelle ore più impervie per non intralciare il traffico passeggeri.

Così stava facendo anche quel giorno, attendere l’orario della partenza seduto al caffè della stazione. Attendeva da solo il suo turno facendo una delle poche cose che gli piacevano nella vita: guardare i treni.

Forse per questo non si accorse che un impiegato della direzione gli si avvicinò.

«Potrebbe seguirmi. Il direttore le vorrebbe parlare…»

Mauri ebbe un sussulto.

«Non sarà mica…» avrebbe voluto dire, per la tessera. Poi guardando l’espressione totalmente vuota dell’impiegato gli passò la voglia di fare qualsiasi domanda.

Ovviamente non era contento, non lo è nessuno quando riceve un invito perentorio da chi sa che potrebbe solo arrecargli degli svantaggi.

Comunque, come avviene per molte cose della vita, non poteva, anche se lo avrebbe voluto, sottrarvisi. Perciò si alzò e lo seguì.

Mentre stavano uscendo l’impiegato fece un gesto al barista e disse: «L’ordinazione la paghiamo noi e segni anche un ulteriore caffè per il camerata».

La parola “camerata” non lo rese certamente felice anzi lo contrariò, ma non poté che apprezzare una certa eleganza e marzialità nel gesto dell’uomo.

Così si ritrovò nuovamente nell’ufficio del responsabile.

Oltre l’uomo con la testa a forma di uovo e la voce stridula questa volta c’era anche un uomo più anziano che indossava la divisa della milizia.

«Cosa cavolo ho combinato?» pensò Mauri, ma fu un pensiero rapido appena abbozzato.

L’uomo con la voce stridula lo salutò romanamente e poi lo fece accomodare.

L’ufficiale della milizia se ne stava in disparte giochicchiando con un modellino di treno. L’altro, l’impiegato che l’aveva accompagnato, se n’era andato dissolto come sale in un bicchier d’acqua.

«Questa sera voi dovete condurre un treno merci, se non sbaglio?»

Arduino Mauri pensò istintivamente ad una trappola, anche se non ne capiva bene il senso e il motivo. Rispose con un semplice «Si».

«Ebbene al vostro carico verranno aggiunti altri quattro vagoni.»

«Contenenti cosa?» chiese impulsivamente Mauri che pure immaginava la risposta.

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«Non vi deve interessare. Veda solo che il treno arrivi puntuale e intero».

«I miei treni arrivano sempre puntuali» rispose stizzito. «Potrà accusarmi di quello che vuole ma i miei treni sono sempre puntuali. Spaccano il secondo, che siano passeggeri o merci. Piuttosto, se mi è consentito, un dubbio però l’avrei: è sicuro che il treno così allungato riesca a superare le curve senza rischiare il deragliamento? Oppure, per evitare ogni possibile rischio, si dovrebbe diminuire la velocità? In questo caso la mia proverbiale puntualità verrebbe meno oppure se, al contrario, mantenessi la velocità necessaria per arrivare in orario, potrei finire con il treno e con tutto ciò che trasporta, in un bel fosso».

L’ufficiale della milizia appoggiò con cura il modellino fra altri simili.

Poi intervenne con voce ferma ma non urlata: «E questo sarebbe un bel problema. O meglio sarebbe un problema sia che deragliasse sia che non fosse puntuale contravvenendo così ad uno degli auspici del nostro Duce che desidera che i nostri treni, di qualsiasi tipo, viaggino sempre in orario. In entrambi i casi però, a dire il vero, la colpa non sarebbe del macchinista se è vero che il convoglio non è sicuro perché troppo lungo. Non so che dire… riferirò al Comando che ci sono dei problemi e poi vedremo…».

L’uomo con la testa d’uovo e la voce stridula non si diede per vinto. «Non vorrà credere alle parole di quest’uomo così poco degno di fiducia da non essersi neppure iscritto al partito. Se le dico che il trasporto si può fare, si può fare in tutta sicurezza. Se il macchinista non se la sente lo sostituirò. Lo metterò a fare il fuochista e metterò al suo posto uno che ci tiene al bene della Nazione e non chi si oppone al suo progresso».

L’ufficiale della milizia alzò le spalle. «Io me ne frego di chi voi metterete a condurre quel treno. Sappia tuttavia che se ci saranno incidenti o ritardi sarete ritenuto responsabile e questo non gioverà al vostro futuro».

La minaccia non era neppure troppo velata e stava ancora aleggiando nell’aria quando il miliziano, dopo essersi accomiatato con marziale saluto romano, uscì dalla porta.

Non passò neppure un battito di ciglia che Mauri si trovò degradato a fuochista aggiunto e a condurre il treno fu chiamato, in tutta urgenza, il macchinista Bonafede Vittorio, uno dei più esperti e fidati del nord Italia.

Uno di quelli bravi che solitamente conduceva ben altri treni e che aveva il pregio, a differenza di Mauri, di non fare troppe domande.

Con Bonafede fu convocato di premura anche il suo fuochista di fiducia: Amilcare Prevedello.

Ad entrambi fu promesso che, se il treno fosse giunto a destinazione in orario, ci sarebbe stata una sacrosanta ricompensa. Forse, per Prevedello anche un passaggio a macchinista.

Così all’ora stabilita lo strano convoglio estremamente lungo e con più personale del necessario, avendo ben due fuochisti, si mise in moto pigramente. Come un dinosauro di latta appena risvegliato lanciò un sibilo contro il cielo notturno e iniziò a prendere velocità. Bonafede desiderava che quel viaggio fosse tranquillo e giungesse a destinazione in orario come il caposcalo si era tanto raccomandato. Intuiva, anche se promesse esplicite in quel senso non ce n’erano state che, se tutto fosse andato per il meglio, ci sarebbe stato come premio per lui, un posto in ufficio come sperava da tanto tempo. Gli anni passavano e stare sempre su quei locomotori, d’estate e d’inverno, non gli giovava molto alla salute.

Che cosa trasportasse e perchè quel convoglio era prezioso lo aveva intuito ma non era compito suo impicciarsi, l’ordine che aveva ricevuto era legittimo e la sua coscienza era, di conseguenza, pulita, bianca come la camicia che indossava il giorno del suo matrimonio.

Per sua fortuna la prima parte del viaggio si svolse senza intoppi. Anche Mauri che sapeva non essere un uomo troppo docile si comportò bene senza mai polemizzare con lui o con le Ferrovie che pure lo avevano trattato in malo modo.

Il treno viaggiava in perfetto orario fino almeno a quando arrivò alle prime curve di quello che, in gergo, erano chiamate “le spire del serpente”. Un tratto fatto di curve piuttosto secche e continue. Per questo Bonafede, che non era un allocco e aveva calcolato l’eccessiva lunghezza del convoglio, tirò i freni.    

Il treno, così, imboccò la prima curva a velocità fin troppo cauta evitando ogni possibile rischio. Di fatto a quella velocità sarebbe sicuramente arrivato a destinazione ma avrebbe accumulato un notevole ritardo. Non piacevano a Bonafede i dilemmi, non gli piacevano quelle scelte obbligate tra due soluzioni in contrasto irriducibile tra loro. Lui era un uomo di mediazione, uno che navigava nel mezzo facendosi andare tutto bene. Un turacciolo di sughero sull’acqua. Ognuno ha il suo daimon. Il suo era di trovare un punto di equilibrio.

Il capo macchinista ordinò improvvisamente a Mauri e all’altro fuochista di spalare più velocemente. Mauri lo guardò incredulo. Non sapeva se ricordargli che le prossime curve sarebbero state insidiose. Poi si morse la lingua, lui non era lì come supervisore ma in punizione per cui non aveva senso cercarsi nuovi possibili motivi di contestazione e biasimo. Se poi fosse avvenuto l’incidente, come aveva previsto, tutto ciò sarebbe andato solo a suo vantaggio. Fischiettando un motivetto allegro diede perciò fondo alle poche energie che ancora aveva e iniziò a ingozzare il mostro di ferro, il quale rapidamente scaricò nuova forza sulle rotaie.

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Bonafede, per quanto gli fosse poco simpatico, era decisamente bravo. Così superò indenne ancora due curve prese alla massima velocità ma, alla terza non ci fu nulla da fare. A pensarci bene neppure San Cristoforo, protettore dei ferrovieri, sarebbe riuscito a non deragliare. La locomotiva e le prime carrozze passarono indenni ma le ultime, spinte dalla forza centrifuga, abbandonarono il loro tracciato sui binari e furono proiettate verso l’esterno. Le ultime sei carrozze volteggiarono grevi, come un ballerino che ha scherzato con troppi dolci, e si rovesciarono pesantemente a terra dopo aver nuotato scomposte nel vuoto. Una conteneva oggetti fragili che andarono distrutti, una legname e quattro i prigionieri ebrei che dovevano essere deportati e che erano state aggiunte all’ultimo.

Il macchinista imprecò in italiano e in dialetto, come forse non aveva mai fatto in tutta la sua vita, pensando a come sarebbe stato difficile il suo futuro prossimo mentre Mauri e l’altro fuochista rimasero come impietriti colpiti dal raccapricciante rumore dei vagoni misto a quello dei freni.

Cosa fare? Fu Mauri a proporre una soluzione. Dovevano al più presto staccare la locomotiva, che era necessario raggiungesse rapidamente la stazione vicina per dare l’allarme e fermare la circolazione. Lui sarebbe rimasto, invece, a guardia dei vagoni perché non ci fossero dei trafugamenti.

Il macchinista Bonafede non era convinto della soluzione ma non trovandone una migliore l’accettò.

Per quanto fossero esperti l’operazione non fu rapida. Le loro stesse movenze, forse per lo choc, erano come rallentate quando invece la velocità sarebbe stata decisiva per evitare ulteriori danni. Poi finalmente la locomotiva liberata dall’inutile carico che la zavorrava iniziò a muoversi, messaggera inconsapevole della ferale notizia.

Mauri rimase così guardiano dei vagoni. Attese che la locomotiva fosse stata interamente inghiottita dalla notte e quindi si mosse verso i vagoni che contenevano gli obbligati passeggeri.

Non era agevole muoversi tra quei vagoni riversi e agonizzanti come dei cavalli a terra sfiniti dopo un’ottusa corsa a perdifiato.

Fortunatamente vi erano aperture da entrambi i lati e così non gli fu difficile, con qualche attrezzo, forzare la serratura.

Appena aperta guardinghi sgattaiolarono fuori molti prigionieri increduli della improvvisa libertà e, probabilmente, di ciò che era successo.

Mauri urlò che dovevano far presto ad allontanarsi. Dovevano volare via come colombe, abbandonando rapidamente quel luogo che per loro significava solo prigionia e probabilmente morte.

Un lungo corteo d’ombre iniziò così a perdersi nell’antistante campagna confondendosi con le tenebre illuminata da pochissima luna.

Dopo il primo vagone, di buona lena, aprì gli altri compreso l’ultimo che era peggio posizionato e che aveva avuto un impatto più deciso con la terra.

Purtroppo qualcuno, in quest’ultimo vagone, non era sopravvissuto all’impatto e altri erano rimasti feriti.

Mauri intravvide il dolore sul volto dei sopravvissuti e cosa strana per lui, provò empatia e una profonda tristezza che sommerse il suo animo solitamente così tetragono ad ogni sentimento che non riguardasse lui e soltanto lui.

Si riprese rapido. Non c’era tempo da perdere. Chi voleva salvarsi doveva farlo in quell’istante anche se ciò significava abbandonare i propri cari. Dilemma difficile. Quasi irrisolvibile con il cuore ma non con la ragione. Mauri urlò nuovamente e sbraitò finché anche gli ultimi sopravvissuti non si dileguarono accompagnati da un dolore indelebile e soprattutto un profondo senso di ingiustizia.    

Ora a lui rimaneva da giustificare quella fuga, di essere credibile con chi avrebbe fatto le indagini di rito, affermando senza tentennamenti che il disastro era già stato fatto quando aveva fatto il sopralluogo. La pena altrimenti sarebbe stata, per lui, molto dura forse fatale.

In realtà non c’era motivo per averli fatti fuggire, non era un simpatizzante degli ebrei, non era un eroe, non era neppure un nemico del regime. Era una testa di legno, ma questa volta aveva avuto ragione a mettere in discussione gli ordini. Sarebbe stato meglio per tutti, a conti fatti, mettere a tacere ogni possibile voce, lasciando che una coltre di polvere ricoprisse quell’increscioso fatto, confuso e celato fra altri ben più difficili da dimenticare.

EPILOGO

Così di fatto avvenne. Fu aperta e subito chiusa una sommaria indagine. Colpevole fu considerato il dirigente della Stazione di Milano che, per quanto avvertito, aveva deciso di far partire lo stesso il convoglio. Per punizione fu trasferito celermente in una Stazione del sud a margine del traffico ferroviario. Il macchinista Bonafede fu trasferito alla divisione merci definitivamente, Mauri fu ritenuto collaborativo e incolpevole per cui tornò al suo lavoro di macchinista. Non avendo la tessera del partito, ovviamente, rimase sui treni merci a orari impossibili. Dell’altro fuochista non se ne parlò neppure.

Poi anche la guerra e la dittatura finirono.

Mauri non sopportò neppure i nuovi politici, arrivati con tante parole e promesse ma pochi fatti come sempre, e questo non gli creò nuovi amici. Tuttavia, il solo fatto di non aver sottoscritto la tessera in un periodo nel quale l’avevano quasi tutti, gli permise di tornare a guidare i treni passeggeri di lusso.

All’inizio fu guardato con rispetto poi tutto fu dimenticato tranne il suo caratteraccio che non perdeva occasione di mostrare al mondo.

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Infine, alcuni, con riconoscenza, cercarono di premiare chi aveva salvato la vita ai deportati di quei carri. Provarono a rintracciarlo ma quell’uomo, quel fuochista, non si fece mai trovare.

Qualcuno pensò si trattasse della ritrosia tipica dei generosi di chi è fedele alla massima del Vangelo secondo cui: «Quando tu fai l’elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra».

In realtà era solo l’indifferenza per le cose della vita, il disinteresse per ogni tipo di memoria o celebrazione e il desiderio di stare solitario su un treno lanciato a folle velocità per sfuggire il più in fretta possibile al pensiero dell’insensatezza della vita e, soprattutto, alla cattiveria degli uomini.  

Maurizio Canauz @ 27 gennaio 2023